giovedì 5 luglio 2012

Il sapore antico del granchio verde

Le «moeche», una tradizione da gustare Custodito per secoli dai pescatori di Chioggia, il segreto, in bilico tra pesca, allevamento e cucina è oggi patrimonio dello Slow Food. Ma rischia di disperdersi Pubblichiamo l'elaborato scritto dalla studentessa del Master in cultura del cibo e del vino di Ca' Foscari, che ha vinto il premio Comunicazione del Corriere del Veneto. Quella delle moeche è una tradizione antica, ne parlava già nel Cinquecento il commediografo Andrea Calmo: «Mi vegno da Treporti, dove se descortega i granzi». Comincia qui, tra paludi e barene, il lavoro del moecante, raffinata arte a metà tra allevamento e pesca, pratica unica della laguna veneziana. È una storia che si perde nel tempo, fino al 1729, quando l’abate Giuseppe Olivi annota tra le pagine della sua Zoologia Adriatica: «I granchi per acquistare il loro accrescimento cambiano ogn’anno crosta. Nei momenti che precedono la muta i nostri pescatori li raccolgono e radunabili in carnieri tessuti di vinchi, volgarmente viero, li collocano a mezz’acqua nei canali. La nuova situazione non impedisce loro di svestirsi: essi perdono la vecchia crosta, e compariscono coperti dalla nuova, ancor molle e membranosa: in tale stato chiamati Mollecche, salgono anche alle mense più nobili». Custodita per secoli dai pescatori di Chioggia l’arte viene svelata nel secondo dopoguerra alle famiglie nobili della Giudecca, per poi diffondersi in tutto il versante nord della laguna. Ma quella che un tempo era un’attività fiorente oggi è un patrimonio in via d’estinzione, che si tenta di valorizzare e proteggere attraverso un apposito presidio Slow Food. «Fino ai primi anni Ottanta eravamo 3/400 -ricorda Umberto Costantini detto il Burielo- oggi tra la Giudecca, Burano, Torcello, Chioggia e la Pellestrina saremo un centinaio». Già perché quella del moecante è una vita dura, si lavora senza sosta in Quaresima e in Fraima, i due periodi di muta del granchio verde o Carcinus aestuarii. «La sveglia è alle 2 del mattino -racconta Umberto, figlio d’arte di terza generazione - si va al mercato del Tronchetto e poi via verso il casone da pesca». Qui comincia il delicato lavoro di selezione dei granchi: gli «spiantani», che perderanno il carapace in breve tempo, vengono separati dai «gransi boni», che muteranno nel giro di qualche settimana, mentre i matti sono restituiti alla laguna. I primi due esemplari, trasferiti separatamente nei vieri, vengono controllati due/tre volte giorno, perché la corazza ricresce entro qualche ora e le moeche vanno raccolte in tempo per essere vendute e consumate. «In genere me le pagano 40/45 euro al chilo -dice "il Burielo" - ma sui banchi di Rialto il prezzo può salire fino a 90 euro». Un piatto di lusso entrato in voga da una ventina d’anni. Oggi lo propongono i ristoranti à la page come «Le Calandre e Quadri, ma» anche moltissime trattorie con una vocazione per la cucina di mare. La tradizione vuole che i granchi vivi siano bucati con uno spillone per far fuoriuscire l’acqua interna. A questo punto la ricetta classica li propone semplicemente infarinati e fritti, mentre i più golosi li immergono nell’uovo per un paio d’ore prima di buttarli nell’olio bollente. Una delizia per il palato impossibile da dimenticare, le «moeche» cucinate secondo la tradizione. Tratto da "Corriere Veneto" Francesca Gavazzi 03 luglio 2012 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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